giovedì 20 ottobre 2016

Un No per democrazia e partecipazione




La riforma Renzi-Boschi riduce drasticamente gli spazi di democrazia. Del resto è quello che le elite finanziarie hanno chiesto al governo italiano con una lettera, neanche troppo ermetica, nel 2013. Ricordiamo la lettera di JP Morgan nella quale si chiedeva, identificando proprio l’Italia come destinatario, di ridurre lo spazio di rivendicazione, di intervento, di partecipazione dei cittadini.

Recentemente questo collegamento è stato definito come “lunare” dal fronte del Sì per mezzo di Fabrizio Rondolino, giornalista de l’Unità. Lasciamo da parte un attimo la propaganda facendo ciò che dovrebbe fare il suddetto giornalista: cioè informare. Mettiamo in fila tre misure che introduce la riforma Renzi-Boschi.

Aumento delle firme richieste per la presentazione di una legge d’iniziativa popolare: passano da 50.000 a 150.000. Si tocca il diritto di rappresentanza attiva rendendo più difficile presentare una proposta di legge da parte di cittadini; un diritto che è fondamentale per la partecipazione democratica in attuazione dell’articolo 1 della Costituzione. Si dice: però c’è la certezza dell’esame delle Camere, che detto in parole più comprensibili, sarebbe: prova a presentarmi una proposta di legge poi se, nel caso, quando, qualora ce la facessi la discutiamo.
Sappiamo bene quanto questo diritto sia importante per il collegamento fra cittadino e Parlamento che, in questo modo viene reso più difficile.

Referendum abrogativo: se la richiesta è supportata da 800.000 firme, il quorum passa dal 50%+1 degli aventi diritto all’affluenza alle ultime elezioni per la Camera dei Deputati. Anche in questo caso il presunto vantaggio scatta dopo aver superato l’ostacolo enorme delle 300.000 firme in più.
Stiamo parlando degli strumenti di democrazia diretta che servono a garanzia, a tutela, dei cittadini i quali possono intervenire nell’attività dei loro rappresentanti modificandola, correggendola, implementandola.

Lo statuto delle opposizioni: per tutelare le minoranze si prevede che il regolamento della Camera dei Deputati disciplini lo statuto delle opposizioni. Il regolamento della Camera è votato senza maggioranze qualificate quindi, i diritti delle opposizioni saranno stabiliti dalla maggioranza assoluta. Cioè, sempre per tradurre: chi esprime il governo disciplina anche il comportamento della sua opposizione.

Da queste tre misure si può vedere come sia una completa falsità “l’ampliamento della democrazia” sostenuta dai promotori della riforma. Siamo difronte a una modifica della Costituzione che riduce sensibilmente gli spazi di partecipazione, di intervento diretto dei cittadini consegnando il Paese nelle mani di un’oligarchia che governerà indisturbata per cinque anni fino al suo rinnovo.

Il sottotesto di questa riforma è una deriva tremendamente grave: l’estromissione dei cittadini dalla politica del Paese, dalle istituzioni costruendo le condizioni istituzionali per non rappresentare più il conflitto sociale. Ci stanno dicendo che non ci deve interessare la vita politica del nostro Paese; ci dobbiamo affidare, consegnando le nostre armi democratiche.

Ebbene, occorre un’inversione di rotta forte facendo sentire la nostra voce, la voce di chi non accetterà mai di consegnarsi nelle mani di qualcuno. La voce di chi vuole democrazia e partecipazione.

giovedì 13 ottobre 2016

E' un No. Anche senza Italicum



E’ possibile giudicare la riforma costituzionale dalla legge elettorale vigente? Questa è la domanda che potrebbe insinuare l’ultima apertura del segretario PD Renzi che, nell’ultima Direzione, ha riaperto la discussione sulla legge elettorale. Ammesso e non concesso che Renzi voglia veramente rivedere l’Italicum, è possibile giudicare diversamente la riforma costituzionale? Assolutamente no.

Il cosiddetto combinato disposto fra legge elettorale e riforma costituzionale è solo uno dei lati negativi dell’assetto istituzionale proposto. Un sistema istituzionale che ridurrebbe di molto la democrazia rappresentativa e lederebbe di fatto il diritto di rappresentanza dei cittadini. Infatti il Senato, che non sparirebbe, diventerebbe una seconda camera composta da consiglieri regionali e sindaci che, a tempo perso, acquisirebbero poteri enormi nella loro funzione di senatori. Come il voto su leggi di revisione costituzionale, nomina di due giudici della Corte costituzionale, elezione del Presidente della Repubblica, competenza in materia europea; per non parlare del potere monco sulla legislazione ordinaria. I senatori si occuperebbero di tutte queste materie senza essere eletti direttamente, ma nominati dai consigli regionali sulla base di un regolamento ancora da scrivere.

E’ impossibile credere a chi si è fatto promotore di provvedimenti per reintrodurre l’elezione diretta dei senatori, questo infatti implicherebbe una revisione della revisione costituzionale poiché, la non elezione, è contenuta nel testo della riforma Renzi-Boschi che prevede di fatto semmai l’elezione di secondo livello. Per fare ciò che la minoranza PD si sta convincendo di fare, è necessaria una revisione del testo approvato: possibilità che, in caso di vittoria del Sì al referendum, Renzi allontanerebbe immediatamente. Un po’ come il ponte sullo Stretto.

Un’altra ragione per votare NO indipendentemente dalla riforma bis della legge elettorale è il caos pasticciato del Titolo V . I rapporti fra Stato e regioni potrebbero diventare alquanto conflittuali grazie allo spezzettamento di materie per le quali i governi regionali dovranno interloquire con il Governo centrale. Per non parlare delle materie locali scippate ai consigli regionali e l’introduzione del diritto di supremazia.

Si dice che questa piccola riduzione sarà compensata nel Senato delle Regioni: la seconda camera che fungerà da dopolavoro per sindaci e consiglieri regionali che potranno esercitare il ruolo, datogli per grazia dai loro colleghi, senza vincolo di mandato. Quindi un consigliere regionale potrebbe fare scelte politiche non rappresentando il territorio da cui proviene. L’assenza di vincolo di mandato fa sentire ancora di più la mancanza di un’elezione diretta a suffragio universale. E’ possibile vederlo con un esempio pratico: un candidato al consiglio regionale farà campagna elettorale sui temi territoriali e locali. Questo candidato successivamente eletto, viene poi nominato senatore cioè, nella logica della riforma, rappresentante del suo territorio in Senato. Tuttavia il senatore non avrà nessun obbligo di portare a Roma l’indirizzo politico del consiglio regionale dal quale proviene. La sintesi è che questo senatore non è rappresentativo del territorio di provenienza perché, primo: non è stato eletto per sedere in Senato; secondo: potrebbe farsi interprete di politiche differenti da quelle che interessano il territorio.

Lo slogan populista dell’abolizione delle province non dice che, nel testo di riforma, viene riconosciuta l’istituzione della Città Metropolitana: la copia identica, sia per competenza che per struttura alla provincia. L’unica concreta differenza è la non partecipazione dei cittadini all’elezione dei consigli metropolitani, diritto attribuito all’élite di sindaci e consiglieri comunali che, per questo, interpretano sia l’elettorato passivo sia quello attivo. Possiamo dire che “l’abolizione delle province” è solo dal punto di vista lessicale e dal punto di vista democratico.

Pur mantenendo fede al presupposto di questo articolo che lascia da parte la discussione legge elettorale per la Camera dei Deputati, è possibile dire qualcosa anche su questo ramo del Parlamento. Infatti, leggendo il testo di “revisione” costituzionale ci si imbatte in un comma che sancisce il diritto del governo di chiedere l’approvazione in data certa di un disegno di legge. Il sistema attuale prevede che difronte a un decreto legge il Parlamento si esprima entro 60 giorni. Se passasse la riforma Renzi-Boschi, il governo avrebbe il diritto di chiedere, e imporre, l’approvazione  della Camera entro 70 giorni su tutti i provvedimenti deliberati. Questo provocherebbe una riduzione dei tempi di discussione e conseguentemente una prevaricazione del governo nei confronti della Camera.

Come vediamo da questo breve, e non certo esaustivo, elenco le trasformazioni sono molte; e’ perciò impossibile prendere in considerazione solo la legge elettorale per valutare questa riforma. E' necessario per questo ricordare, a quanti stanno rimettendo in discussione il loro giudizio, che anche senza Italicum si tratta di un vero e proprio stravolgimento dell’assetto politico-istituzionale del Paese; e se approvato avrebbe una pesante influenza negativa sulle pratiche democratiche e di partecipazione.

sabato 8 ottobre 2016

Consiglio Metropolitano: io mi astengo! Vuoi sapere il perché?




Domenica 9 Ottobre si svolgeranno le elezioni del Consiglio metropolitano di Bologna: l’assemblea della Città Metropolitana che, con questo voto, passerà dalla fase costituente all’operatività delle sue funzioni. Prima di dichiarare quale sarà il mio voto, è bene inquadrare la situazione.

L’elezione del Consiglio metropolitano  si definisce “di secondo livello” cioè, non saranno i cittadini elettori a scegliere i consiglieri metropolitani ma i sindaci e i consiglieri comunali dell’area metropolitana di Bologna. Essi infatti interpreteranno sia l’elettorato attivo che passivo quindi, in altre parole, saranno sia elettori che eletti. Questa è la grande differenza sostanziale rispetto all’istituzione provinciale il cui consiglio era eletto a suffragio universale.

Entriamo un po’ più nel dettaglio. Trattandosi di elettori rappresentanti di altri elettori, per determinare i voti reali a ogni lista saranno utilizzati dei moltiplicatori associati alle fasce di popolazione dei comuni dell’area metropolitana. I voti che i sindaci e i consiglieri comunali attribuiranno ai candidati saranno moltiplicati per un numero che varierà a seconda della popolazione del comune da cui proviene l’elettore. Ad esempio il gruppo dei comuni con popolazione superiore ai 10.000 e inferiore o uguale a 30.000 abitanti avranno come moltiplicatore il numero 102. Ciò vuol dire che, tutti i voti dei sindaci e consiglieri dei comuni appartenenti a questa fascia, fra cui Sasso Marconi, saranno moltiplicati per 102.

Dal funzionamento di questo meccanismo emerge come, la Città Metropolitana di Bologna, non avrà un Consiglio rappresentativo dei cittadini dell’area metropolitana, bensì rappresenterà solo gli eletti negli enti locali. Il ragionamento sarebbe coerente se non si usasse il moltiplicatore: meccanismo che attribuisce la scelta del singolo elettore a un insieme di cittadini. I quali, verosimilmente, non sapranno neanche quale sarà la composizione del Consiglio. E’ chiaro come in questo la Città Metropolitana rappresenti una riduzione di democrazia imposta nel nome del contenimento dei costi. Non si sono abolite le province, sono state sostituite da questa nuova istituzione che non risponde ai cittadini, ma a un’élite di eletti.
Questo è il quadro nel quale sarei chiamato a esprimere il mio voto in quanto consigliere comunale di Sasso Marconi.

Per questa elezione sono candidate quattro liste: Rete Civica, Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Uniti per l’Alternativa. E’ assente la rappresentanza della Sinistra, elemento non trascurabile politicamente.

La mia scelta sarà di astenermi. Questa scelta è fondata su due motivi principali: il primo tiene conto della modalità di elezione che mi costringe a scegliere per 102 cittadini, il che non mi sembra rientri nei compiti per cui sono stato eletto. Il secondo, più politico, tiene conto dell’offerta elettorale presente: l’assenza di una lista di riferimento della Sinistra, com’è stata invece per l’elezione del 2014 con Sinistra per i Beni Comuni, non consente di esercitare il voto in coerenza. Principio che, pur non togliendo dall’imbarazzo di scegliere per qualcun altro che potrà non sapere di questa scelta, può essere uno stimolo al voto considerando la propria provenienza politica. Tuttavia, in questo caso, non è possibile perché non è presente nessuna lista che rappresenti la mia idea di città metropolitana.